lunedì 17 marzo 2008

TEMA ARGOMENTATIVO
INTERCETTAZIONIE PROCESSI MEDIATICI

L’intercettazione telefonica è un metodo di ricerca della prova tipico dei processi penali, disciplinato dall’articolo 266 del codice di procedura penale.

Esso consiste nella registrazione di dialoghi telefonici, informatici o fra presenti tramite l’uso di una adeguata tecnologia o il consulto degli archivi che per legge devono essere tenuti dalle industrie telefoniche.

Il fenomeno che sempre più spesso si verifica sulle pagine dei nostri giornali è che vengano pubblicati i testi integrali di intercettazioni a personaggi famosi che, nella maggior parte dei casi suscitano lo scandalo popolare. Compaiono talvolta sui quotidiani “articoli che riportano le conversazioni private di personaggi noti e meno noti su fatti che definire ‘di interesse pubblico’ è un eufemismo […] con testate che pubblicano persino i numeri di cellulare dei soggetti in questione” osserva Emanuele Boffi di Tempi.

Si tratta dunque di una ingiustizia e di un procedimento barbaro sotto gli occhi di tutti, al punto che “sono meno scandalose le intercettazioni del modo con cui ci vengono mostrate” come osserva sempre Boffi, “eppure nessuno sembra prendersela troppo”.

È a questo punto lecito chiedersi quali siano le cause di questo fenomeno, perché ogni giorno si possano leggere in giro i vari “Lillo sei un coglione”, “guarda che gnocca”, “facci sognare” e “abbiamo una banca” di politici e dirigenti, dove sia il diritto alla privacy in questa dinamica mediatica.

Innanzitutto bisogna andare a vedere cosa effettivamente dice la legge a riguardo, ovvero in questo caso il codice di procedura penale. L’articolo 266 esplicita i limiti di ammissibilità di una intercettazione: “delitti non colposi per i quali sia prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore a 5 anni, delitti contro la pubblica amministrazione, concernenti sostanze psicotrope o stupefacenti, armi o sostanze esplosive, contrabbando, ingiuria, minaccia, usura ecc.” (non quindi casi di giustizia sportiva, come quello ampiamente “intercettato” di Moggi). Gli articoli 114 e 115 invece stabiliscono le regole di diffusione degli atti giuridici (come la trascrizione delle intercettazioni): “e vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o altro mezzo di diffusione, degli atti giuridici coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto; è vietata la pubblicazione anche parziale degli atti non più coperti dal segreto fino alla conclusione dell’udienza preliminare”.

Un illecito si è verificato, dunque, senza dubbio, poiché ad esempio i dialoghi di Moggi sono comparsi sui giornali molto prima dell’ inizio del processo, e questo fatto è avvenuto e continua ad avvenire con numerose altre intercettazioni.

Viene spontaneo chiedersi per quale motivo allora non vengano processati e puniti i colpevoli di questi crimini più che manifesti.

La risposta ci è offerta da Castelli, ex ministro della giustizia: “oggi trasmettere e pubblicare notizie coperte dal segreto istruttorio è un crimine solo per il pubblico ufficiale che parla troppo. L’editore al massimo paga una multa di pochi euro (da 50 a 300). In più, siccome il PM responsabile della fuga di notizie non si trova mai, di fatto restano tutti impuniti”.

Ecco dunque il problema: una effettiva deficienza legislativa che però affonda le radici in altre questioni ben più problematiche. Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, dice in una intervista: “l’uso giornalistico delle intercettazioni è diventato ormai una abitudine per i giornali. Lo fanno tutti. Perché lo fanno? Per ragioni strettamente commerciali, per vendere di più. Non è un diritto di cronaca, è un diritto di vendita”, opinione condivisa da molti, come ad esempio Castelli.

Il vero motivo per cui si pubblicano le intercettazioni sembra quindi essere commerciale e non informativo. Osserva Laura Borselli, di Tempi: “è un fenomeno sempre più diffuso: il giornalismo si è adeguato ai gusti del pubblico, rendendosi sensibile ad argomenti di gossip e società”.

Le ragioni che ci permettono di contestare questo fenomeno, che in fondo fa felici lettori e giornalisti, può essere presentato come una crociata per ripulire la politica dalla “sozzura” e oltretutto è a scapito di poche persone che il giudizio mediatico ha già reso antipatiche e disprezzate, sono molteplici.

Innanzitutto costituiscono un mezzo politico efficace e pericoloso per eliminare personaggi scomodi, perché le intercettazioni e soprattutto i processi mediatici che le accompagnano forniscono informazioni spesso parziali e comunque non verificate, in quanto offerte prima del processo e basate su di un criterio che assomiglia molto alla simpatia, ma condizionano pesantemente l’opinione pubblica. Come osserva Simone Lucerti, PIM del tribunale di Milano, “l’udienza in tribunale […] termina con un giudizio espresso da un giudice professionista dall’esito del contraddittorio fra accusa e difesa; nel processo mediatico invece, ciò che viene affermato è frutto solo di accertamenti provvisori d sovente unilaterali, ma ha la singolare potenzialità di apparire come veritiero e definitivo”. Per questo motivo il metodo mediatico non è efficace come strumento informativo, perché spesso non riporta il vero.

In secondo luogo, la pubblicazione di intercettazioni è una “effettiva violazione della privacy e quindi dei diritti inalienabili della persona quando le informazioni riservate non sono direttamente coinvolte nel processo (come avviene nella maggior parte dei casi) e non riguardano quindi crimini o illeciti”, come dichiara Mastella, ministro della giustizia, in una intervista.

Per combattere questo fenomeno, il ministro stesso ha varato un progetto di legge che, dopo essere stato approvato alla camera, è da alcuni mesi fermo in senato. “la nuova legge” spiega, “da un lato aggrava le sanzioni per chi infrange il divieto di pubblicazione: arresto fino a 30 giorni o in alternativa ammenda da 10.000 a 100.000 euro; dall’altro allarga il novero degli atti non più pubblicabili”.

In opposizione a queste motivazioni e provvedimenti, molti giornalisti e politici come Marco Travaglio dell’Unità o il ministro Di Pietro, si sono pronunciati a favore dell’uso mediatico delle intercettazioni, sottolineando come posizioni contro di esse rischino di tutelare interessi e reputazioni di politici e personaggi famosi più che la privacy dei cittadini. Lo stesso Travaglio scrive sull’Unità: “questa è una legge [la legge di Mastella] che se passerà pure al senato impedirà ai giornalisti di raccontare – e ai cittadini di conoscere – le indagini della magistratura e in certi casi i processi di primo e secondo grado. Non e una legge contro i giornalisti, è una legge contro i cittadini ansiosi di essere informati sugli scandali di potere…” evidenziando una problematica non irrilevante.

Dall’analisi della questione effettuata in queste pagine, risulta evidente che ogni provvedimento è inutile se applicato perdendo di vista il punto fondamentale, dall’una e dall’altra parte. Se infatti lo scopo del giornalismo è informativo, accanirsi su alcuni soggetti e dare per vere informazioni non verificate costituisce una trasgressione ai propri principi; d’altro canto un provvedimento di legge che si imponga di difendere in modo ferreo la privacy dei cittadini dimenticandosi del motivo per cui va protetta (è un diritto inalienabile dell’uomo al pari della libertà e dell’uguaglianza), diventa uno strumento efficace per nascondere scandali e crimini dall’opinione pubblica.

Sarebbe quindi interessante discutere dei limiti della privacy, in modo da trovare il giusto compromesso fra la riservatezza dovuta alla gente e le verità che essa ha diritto di sapere, anche a scapito della “reputazione” del soggetto in questione.